“DIzionARIO ANTIPSICHIATRICO”

“Le vie della psichiatria sono infinite. Si può essere accusati e rinchiusi in manicomio criminale, come è successo ad un esponente dei Verdi, anche con diagnosi di altruismo morboso” (1). Nonostante il “superamento” dei manicomi attraverso la famosa legge Basaglia, e nonostante la recente evoluzione che ha portato alla chiusura dei famigerati OPG (Ospedali Psichiatrico Giudiziari), la cronaca continua a riportare casi di morti per TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), “ricoveri forzati”, e simili….

Dove comincia la polizia finisce la scienza, e se per Freud come per Jung “è inutile cercare di guarire a tutti i costi” (2), dal lato poliziesco invece l’uso della psichiatria è noto fin dagli ultimi tempi dell’URSS, quando qualunque dissidente era automaticamente definito “malato di mente”. Qualcuno/a ricorderà persino il giudizio su simili pratiche da parte di Primo Levi “[…] comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell’autorità”(3). Sarebbe ipocrita applicare “due pesi e due misure” all’esperienza italiana e a quella dell’URSS del dopo Breznev…

Giuseppe Bucalo, nella sua opera “DizionARIO ANTIPSICHIATRICO” edito dalle edizioni Sicilia Punto L, demolisce molte delle convinzioni comuni sul tema della malattia mentale. Già nell’introduzione, ci porta a riflettere su “a chi serva” considerare certi comportamenti come “sintomi”, e sull’arbitrarietà del nostro giudizio circa la “follia” o la “normalità”.

Il primo capitolo si intitola “Che cos’è la malattia mentale?”. L’autore, ci dimostra che non esiste nessun criterio veramente scientifico. “Se ci trovassimo davvero in campo medico, ciò costituirebbe un paradosso” (4). Tutto ciò che è incomprensibile ( soprattutto se, per giunta, dà noia agli altri), è passibile di venire diagnosticato in campo psichiatrico. Peggio ancora, vista dalla giusta prospettiva, qualunque cosa può essere incomprensibile. “Teoricamente, e praticamente, noi potremmo ottenere una diagnosi psichiatrica per ognuno dei nostri familiari e amici”(5). Neppure gli psichiatri più esperti riescono a separare “il grano dal loglio”. L’autore riferisce di un esperimento in cui persone “sane” si sono (consapevolmente) presentate in strutture psichiatriche, fingendo “sintomi” per vedere se i medici riuscivano a separarli dai “malati”. E, nella totalità dei casi, i medici non sono riusciti a capire chi era “sano”. “Nel loro rapporto, gli sperimentatori citano il fatto paradossale che gli unici a nutrire dubbi sulla loro identità, erano stati altri ricoverati”(6). L’esperimento venne, in seguito, tentato anche “al contrario”. Venne annunciato ai responsabili di strutture psichiatriche che si sarebbero presentrati dei “falsi pazienti”. In realtà nessun “falso paziente” venne inviato. Ma i direttori sanitari delle strutture in questione rifiutarono ugualmente un gran numero di ricoveri, credendo che si trattasse di sperimentatori. Quindi….. mancano totalmente i famosi “criteri verificabili”che definiscono la scienza.

Il secondo capitolo è “Che cos’è l’antipsichiatria?”. Date le premesse, questa può essere solo un modo di porsi verso il comportamento altrui nel quale l’incomprensibile e quello che ci sembra incongruente non è un sintomo patologico e, per giunta “L’idea che senza il nostro aiuto la stragrande maggioranza dei pazienti psichiatrici si suiciderebbe, ucciderebbe qualcuno o vivrebbe sotto i ponti è del tutto infondata” (7).

Quest’ultimo concetto viene sviluppato nel capitolo successivo “Paradossi psichiatrici”; le cure moderne non potendo quindi avere serietà scientifica sono solo metodi di controllo. Nè è ravvisabile un qualche serio progresso nella loro evoluzione: “Il fatto di trattare meglio le persone non significa trattarle da persone”(8).

In “Ipotesi di sopravvivenza” l’autore dà qualche esempio, tratto dalle sue esperienze di medico, di quale può essere l’atteggiamento “antipsichiatrico”. Giuseppe Bucalo passa quindi a discutere dei pregiudizi più comuni su cosa sia l’antipsichiatria: essa non fornisce nessuna sociogenesi alternativa della cosiddetta “malattia mentale”, perché la scienza non è in grado di stabilire cosa la “malattia mentale” sia, e neppure se essa davvero esista; quindi l’uso degli psicofarmaci può giustificarsi solo al livello dell’uso di altri “generi voluttuari”(alcool, tabacco, caffè etc.); non si può parlare di abbandono quando invece si cerca di capire e di dialogare al posto di cercare il controllo e il contenimento. Chiude il volume un “dizionario minimo” con citazioni di vari studiosi.

Arrivati a questo punto, il lettore/lettrice permetteranno all’autore di questa recensione qualche considerazione a carattere generale.

Parlare di “sofferenza psichica” è parlare di qualcosa di estremamente comune a tutta l’umanità. E’ difficile confutare una vasta gamma di pensatori -dal Leopardi al Sofocle, da Baudelaire allo Shopenhauer, che hanno mostrato l’universalità della sofferenza, dicendo che “il sano non soffre”. Ogni vivente, soffre orribilmente in ogni attimo della sua esistenza (e, secondo molti: persino dopo morto, opinione con la quale concordo). Nessun tipo di cura “verrà a capo di ciò”. Al di là di questo, bisogna ricordarsi che se una società è democratica in quanto capace di accettare il dissenso al suo interno, allora non può discriminare quale dissenso sia “da sani” e quale “da trattamento obbligatorio”. Giordano Bruno, per fare “un nome a caso”, è stato bruciato vivo perché dissentiva sul modo di vedere la realtà della maggioranza delle persone del suo tempo. Allora veniva considerato “eretico” ma la sua concezione della pruralità dei mondi sarà certamente parsa anche “folle”. Adesso non bruciamo più gli eretici, li mettiamo in TSO in quanto “pazzi”. E’ cambiata solo la pena, non la condanna. E le giustificazioni che diamo a noi stessi sono pericolosamente simili a quelle che davano a se stessi gli inquisitori….


(1) Giuseppe Bucalo, DizionARIO ANTIPSICHIATRICO, Sicilia punto L edizioni, Ragusa 1997, pag 10
(2)Carl Gustav Jung, Introduzione alla psicologia analitica, Bollati Boringhieri editore Torino 2000, pag.149
(3)Primo Levi, Appendice a “Se questo è un uomo” Einaudi scuola Torino 1976 pag. 246
(4) Giuseppe Bucalo, op. cit.pag.36
(5)Giuseppe Bucalo, op.cit. pag.41
(6) Giuseppe Bucalo, op.cit. pag.42
(7) Giuseppe Bucalo, op.cit. pag. 59-60
(8) Giuseppe Bucalo, op. cit.pag.74


La psichiatria, e il cosiddetto “bisognoso di cure”…

Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!” I. Kant

Per la chiesa cattolica il peccatore non è libero nelle sue scelte. Infatti egli è “cattivo” ossia captivus diaboli : ‘prigioniero del diavolo’ . Analogamente per la psichiatria il cosiddetto “malato” non è libero : per ragioni irrazionali e francamente incomprensibili egli/ella non sarebbe un soggetto dotato di libero arbitrio, o quantomeno: lo sarebbe solo in quanto e per quanto si riconosce come malato, desidera “curarsi”, vuole raggiungere la “serenità” etc.. Questa distinzione tra “psichicamente sani” e “psichicamente malati” al netto della sua natura discriminatrice potrebbe -per assurdo- anche e persino avere un (suo) senso se l’esperimento Rosenhan (1) non avesse dimostrato che neppure uno psichiatra è davvero in grado di distinguere tra “le pecore e le capre”.

Manca infatti nella realtà (2) uno di questi stati: ossia la supposta (uso il termine in voga qualche anno fa)  “malattia mentale”. Solo nella condizione nota come “coma”, un essere umano è realmente “incapace di intendere e di volere”, tutti gli altri : “vogliono”, e qualcosa persino “intendono” (anche se normalmente “comprendono” molto poco), persino i neonati, che sanno benissimo cosa vogliono, e riescono persino a comprendere alcune delle cose fondamentali come il bisogno di cibo e il modo di richiamare l’attenzione altrui.

Ancora più arbitrari sono i termini che si sono affermati in seguito. Attualmente si cerca di parlare ad es. di “sofferenza psichica” invece che di “malattia mentale”. Oppure ancor più arbitrariamente e genericamente si parla di “persone bisognose di cura”. Lo schiavo, ovviamente un soggetto che per definizione non è autonomo, oltre ad dover essere efficiente nel suo ruolo subalterno, deve anche essere sorridente per non turbare la digestione ai padroni. Inoltre, c’è chi sa meglio del soggetto stesso quale sia il suo bene e come raggiungerlo, altrimenti non vivremo tutt* in una società capitalistica e oppressiva. Ma la genericità di questi nuovi termini (sul tema “sofferenza” tornerò in seguito), fa da contrappeso a dei modelli ideali di comportamento e di relazioni sempre più stringenti (DSM 4 e 5) e omnicomprensivi, tanto che ormai qualsiasi comportamento potrebbe essere definito come “patologico”. Persino tra gli psichiatri (3) esiste chi mette in dubbio la necessità di una tale stringente e omnicomprensiva categorizzazione, segno che essa sta diventando non più funzionale alla formazione e al mantenimento -in ruolo ovviamente subordinato – degli schiavi del Capitale.

Ovviamente come ogni teoria utilizzata a fini repressivi, la psichiatria dispone dei mezzi ideologici e pratici per auto – convalidarsi. E quindi cerca “in primis” di concretizzare l‘assenza di libero arbitrio che essa vorrebbe che esistesse “di natura” nelle persone ad essa soggette. Di qui la “necessità” delle “cure”. Di qui una moltitudine di mezzi coercitivi che culminano nel Tso, ma che partono in realtà dalla società in cui la psichiatria opera (pressioni familiari, economiche, lavorative…). Questi mezzi coercitivi, nella società sono “generici”, con la psichiatria diventano molto specifici. Il soggetto non deve e quindi non può “fare da sé”. Il serpente si morde la coda. Gli strumenti veri e propri della psichiatria si caratterizzano infatti per cercare di togliere specificatamente appunto la capacità (e/o la volontà) del soggetto di autodeterminarsi; capacità e volontà che secondo la psichiatria sono già escluse ( e spesso: a priori ) dall’ esistere nel soggetto. Questi strumenti partono dai farmaci, generalmente portatori di dipendenza fisica, per arrivare a “terapie” basate sul “dialogo” (che come vedremo possono -in questi casi- anch’esse venire considerate come una vera e propria tortura, e che comunque hanno lo stesso scopo dei farmaci, ossia di far mutare qualcosa nel/al soggetto, sotto un qualche “indirizzamento” dall’ esterno).

Il metodo per eccellenza -per contrastare l’autodeterminazione del singolo- rimane però quello stesso di propagandare un modello di comportamento e di relazioni, arbitrariamente definito come “salute mentale”, che non necessariamente rispecchia la volontà (o la natura) del singolo stesso. A questo modello tutt* devono conformarsi, pena l’essere considerati “umani di serie B”, bisognosi di cure, incapaci di autodeterminarsi, e possibilmente da sorvegliare, se non “da instradare” quantomeno con “il dialogo”, se non con farmaci, quando non con la contenzione fisica o l’elettroshock (metodi entrambi tutt’ora usati in Italia).

Il modello ideale di comportamento e di relazioni a cui tutt* devono conformarsi viene giustificato “a posteriori”, in tanti modi. Adesso è di moda la giustificazione bio-chimica. Questa, come ogni giustificazione a posteriori (infatti le diagnosi psichiatriche non partono dalla constatazione della presenza di determinati squilibri bio-chimici nel soggetto), è persino accusabile di essere “in mala fede”. Il problema però non è che un determinato modello di comportamento e di relazioni venga giustificato con la bio-chimica piuttosto che con altro, il problema è che di nuovo, porre un qualsivoglia modello come quello a cui tutt* devono conformarsi, volenti o meno, “costi quel che costi”, rende (“sinergicamente” ad altri fattori) la psichiatria “mero strumento repressivo”, nei fatti, a prescindere dalle intenzioni anche lodevoli di taluni psichiatri.

Di sfuggita devo comunque notare che la giustificazione bio-chimica delle “terapie” (notare le virgolette) psichiatriche rischia però di peggiorare le valenze normativo-repressive delle terapie in campo neurologico (si pensi ad es. ai malati di Alzheimer). Di questo non mi occuperò nel presente scritto, rimandando il tema ad una trattazione “a sè”.

Sulla base della mia, certo parziale e relativa esperienza, metterò con la massima sistematicità a me possibile “nero su bianco” alcune considerazioni che ritengo (a torto o a ragione) di una certa necessità sui temi della psichiatria e della cosiddetta “salute mentale” in generale. Lo scopo principale di questa esposizione (spero) ragionata è offrire “un framework” di strumenti teorici e qualche considerazione pratica “farina del mio sacco”a chi si opponga all’ azione repressiva.

A)Considerazioni preliminari:

Esistono delle comuni “pietre d’inciampo” filosofiche, errori comuni che rendono più facile l’opera repressiva non solo della psichiatria, ma di tutto “un apparato” che si autodefinisce come “assistenziale”. Cercherò di essere sintetico…

1)Le scelte che facciamo

La “pietra d’angolo” del rispetto umano è rendersi conto che qualsiasi scelta (conscia o inconscia) fatta da qualunque persona è “valida” e “degna di rispetto” quanto le scelte che abbiamo fatto te e io. L’assassino che uccide per il piacere di farlo, e il santo cattolico che vive nella miseria, ha le stigmate sulle mani e soffre per i peccati del mondo, insieme alla rockstar che grida a tutte le ore e al monaco ortodosso che ha fatto voto di silenzio e contempla immobile tutte le cose, hanno fatto tutt* delle scelte che dobbiamo rispettare e accettare, anche se non le condividiamo, quanto quelle dell’ impiegato dell’ufficio accanto. La maggior parte delle scelte fatte da chiunque, viene presa non in maniera cosciente (si legga ad es. il famoso libro “I persuasori occulti” di Vance Pakard, se se ne vuole una dimostrazione “spicciola”), il grado di consapevolezza con cui viene fatta qualunque scelta è sempre talmente basso da non consentire un giudizio “di selezione” su di queste basato “sulla maggiore o minore consapevolezza” di una scelta, anche se in casi abbastanza particolari (l’adesione delle masse al nazismo o al fascismo) la mancanza di consapevolezza dell’individuo aggrava ( e non alleggerisce) la responsabilità del singolo individuo. Se ci si rende conto del nostro (di noi “osservatori”) grado di soggettività e se non si hanno pretese di “oggettività”, si può parlare di “condivisibilità”, si può anche parlare di “comprensibilità” etc. Esiste un giudizio “politico” che rimane fondamentalmente “nostro” e che anche per questo non vogliamo “esportare” dentro coloro che non la pensano come noi, esiste un giudizio morale basato su convinzioni che sono “par excellence” persino incomunicabili con l’altr*, possiamo persino chiederci quali siano le ripercussioni sociali di queste scelte, ma rimane (e deve essere continuamente ribadito) il punto da cui sono partito: l’assassino, l’impiegato di banca, il monaco, Sid Vicious, Maurizio Costanzo e il tossicomane all’ angolo della strada hanno fatto delle scelte “equivalenti” (tra loro e alle nostre) da rispettare e accettare. Stà a loro (e non a noi) decidere se e eventualmente: quando, “riconsiderare” queste scelte. Riconoscere l’altr* come umano è accettare ( e non voler cambiare) le sue scelte anche se l’ altr* corre nud* tutto il giorno 365 giorni l’anno, urlando per la strada e per giunta ci dà anche fastidio. Jung scriveva che ognuno deve arare il suo campo con il suo proprio aratro. Il mio può essere migliore, ma purtroppo non glielo posso prestare (4). Questa non è indifferenza. Se l’altr* soffre, indifferenza è non soffrire con lui/lei. Ma credere di poter risolvere i suoi problemi, meglio di come sta già facendo lui/lei è “hybris”. Se e quando interveniamo, facciamolo almeno con la consapevolezza di agire per il nostro e non per l’altrui interesse.

Neppure l’ateo più incallito negherebbe a Padre Pio il diritto di avere le stigmate (quindi Padre Pio viene considerato come “umano” e capace -in fondo- di autodeterminarsi), né l’ateo rispettoso cercherebbe di evitare a un qualsiasi santo cristiano -cattolico di avere le sue terrificanti visioni dell’inferno. A una buona fetta della popolazione viene invece negato il diritto alla classica “crisi di nervi” (quindi non vengano considerati “pienamente umani” ossia capaci di autodeterminazione) pena farmaci, reclusione, etc.

Qui ovviamente ho parlato sottintendendo che il soggetto in questione sia maggiorenne. Se ci si vuole prendersi cura di un minorenne, togliere tutto ciò che nella società di noi adulti “lo indirizza” affinché ogni sua scelta diventi un domani davvero “farina del suo sacco”, è molto più efficace e incisivo (oltreché costruttivo) rispetto a tante cosiddette “terapie centrate sul soggetto”. Comunque anche il discorso “minorenni” richiederebbe una trattazione a sé, e visto che per ora parlerò di altro, anche più avanti, sottintenderò che quanto scrivo è inteso come riferito a dei soggetti maggiorenni.

E’ diffusa, purtroppo non solo in ambito psichiatrico, la “moda” di etichettare alcuni comportamenti sgraditi allo psichiatra o all’assistente sociale di turno (o ad altri “facenti funzione”) come “infantili”. A ciò, già rispondeva “ante litteram” l’inno napoleonico “Le chant du depart” che affermava che “i repubblicani sono degli uomini, gli schiavi sono dei bambini”.

2)La condizione umana

Affrontiamo sinteticamente i temi della “serenità” e della “non -sofferenza”.

Moltissimi pensatori da Pascal a Nietzsche fino a Leopardi hanno ritenuto che la condizione umana sia naturalmente “portata” alla sofferenza. E’ difficile confutare tutti questi con l’esistenza di un “modello” gabellato come “salute mentale” secondo cui : “il sano non soffre”. Ovviamente sarebbe parimenti sbagliato dire che “il sano è colui che soffre”. Tutt’al più potremmo lasciare aperta la possibilità teorica che esistano persone che non soffrano, o che comunque non siano proprio completamente travolte da questa sofferenza, se ciò è conforme al loro volere (conscio e inconscio). Se una persona ha scelto sia consciamente che inconsciamente “la serenità” potrebbe (forse) non soffrire orribilmente in ogni attimo della sua vita, ma allora: nessuno meglio di lui/lei saprebbe dirgli come fare per farlo, e ogni interferenza esterna non potrebbe che rendergli le cose più difficili.

Se le circostanze esterne rendono il soggetto “schiavo salariato” o peggio, il minimo sindacale che il soggetto dovrebbe chiedere è quello di essere nevrastenico. Anche qui, un intervento sul soggetto produrrà tutt’al più un tossicodipendente da farmaci. In casi come questo, qualsiasi intervento dall’esterno che non stravolga le circostanze economico-sociali in cui il soggetto vive, è puro “addolcire la pillola” (e qui per “pillola”intendo il lavoro salariato). Ci si può anche chiedere quale sia il grado di “autenticità” della “serenità” così ottenuta.

Scegliere la “serenità” è comunque una scelta che il soggetto può consciamente anche non fare. Molti preferiscono apertamente essere “un mare in tempesta” piuttosto che uno stagno. E come ogni scelta, non rispettarla è proprio della “repressione” non della medicina.

E’ pura ideologia, lontana da ogni valutazione dei fatti empirici anche il dire che un soggetto è o non è travolto dalla sua sofferenza al punto di non essere più “funzionale”, perchè ci potrebbero essere casi in cui la molla di un comportamento appparentemente “normale” consiste esclusivamente in un’assoluta disperazione, senza di cui il soggetto non si alzerebbe da letto, nè si vestirebbe o altro. Henry David Thoreau, sarebbe probabilmente d’accordo nel constatare ciò. In generale, di nuovo, mi si obbietterà che in taluni casi la “sofferenza psichica” del soggetto impedisce al soggetto stesso di espletare varie “funzionalità”. Al di là di quanto già detto, mi sembra davvero banale rispondere (e per questo non mi soffermerò molto su di questo) che questa “funzionalità” oggi finisce sempre e inevitabilmente per essere una funzionalità calibrata sui desideri dei “padroni del vapore” e che quindi non si è in grado di definirla in termini davvero obbiettivi. Nella pratica anche un discorso sulla “funzionalità” o sulla “disfunzionalità” (anche nei contesti in cui ad esempio si parla di genitori “disfunzionali”, di “abilità relazionali” eccetera), finisce “per portare acqua” al mulino del Capitale. Purtroppo questo risultato inficia ogni pretesa di “obbiettività”. Bisogna quantomeno provare ad essere obbiettivi, (la “sospensione del giudizio” viene praticata solo in teoria e per giunta proprio da chi poi formula diagnosi psichiatriche che sono “un giudizio”) riconoscendo se un tipo di valutazione può essere obbiettiva e quindi può essere fatta e se invece questo tipo di valutazione non può essere fatta e quindi ci si deve astenere dall’usarla. Tornerò comunque sul tema “efficienza e autosufficienza”.

Le vigenti leggi non mi permettono di esprimere tutto ciò che penso sul suicidio (si veda la vicenda editoriale del libro “Il suicidio modo d’uso” di Claude Guillon-Yves Le Bonniec, censurato persino in Francia e sequestrato in Italia) tuttavia il fatto che sia stato realizzato da tanti uomini e donne illustri, in una pluralità di circostanze, basta a smentire chi vorrebbe che il metterlo in pratica sia sinonimo di qualche alterazione del pensiero.

3)Il principio di realtà

Il problema “che cos’è reale e cosa no”, si pone, ed è un problema molto pratico anche in tutti i casi in cui opera “un qualunque apparato” che si autodefinisce come “assistenziale”. Non volendo esaminare qui ad esempio il problema dei rapporti tra ideologia e concezione della realtà, esamininerò la questione da un punto di vista “pragmatico”. Parlare di “deliri”, “derealizzazioni” e quant’ altro, in relazione a ciò che sente o che vede un’altra persona, è sicuro segno che “non si hanno buone intenzioni”. Questo vale anche se si considera un esperienza “x” di un’altra persona “non oggettiva”.

Il fatto che il principio stesso di realtà sia relativo, che serva gli interessi della Chiesa e del capitale e che siano questi a definirlo, è escluso dalla discussione, in quanto questione politica che, dicono, non ha nulla a che fare con la scienza. Il fatto che anche la sua esclusione sia politica non viene colto affatto” (5) .

Timothy Leary parlava di “realtà consensuale” ( 6) , il dato oggetto non è pesante x, dotato mettiamo di densità y, composto dalla sostanza z, etc. ma siamo noi che gli attribuiamo consensualmente questi attributi. Questo è “un discorso” che può essere accettabile, se tutte le percezioni su cui si basa “il consenso” vengano ugualmente considerate come valide (anche quelle dissenzienti), e se il risultato finale è “mera convenzione”. Ora, dobbiamo però stare attenti perché “soggettivare” ogni questione è un metodo, usato “in zona psichiatria” per tacere la verità. Di nuovo: voglio essere pragmatico. Sarebbe “meglio e più pratico” ipotizzare che non esista una realtà oggettiva, fattuale, ma un numero “x” di realtà oggettive, fattuali e sperimentalmente dimostrabili (“galileiane”) coesistenti nel medesimo spazio-tempo. All’ interno di alcune di esse vigerebbe ad es. il principio di non contraddizione, ma è chiaro come, nell’insieme, questo principio non potrebbe valere. A considerazioni per certi versi simili arriva per esempio la fisica moderna, e ciò “è molto più costruttivo” dell’ultima variante dell’etichetta con la scritta “delirio”, o alla “soggettivizzazione” di tipo psicanalitico. Vedremo quando si parlerà specificamente di psicosi e di schizofrenia cosa questo comporti per queste “etichette”. Tuttavia ciò dovrebbe essere “tenuto ben presente” ben oltre il campo propriamente psichiatrico, ma ogni volta che le nostre valutazioni su un oggetto o sulla natura (magari umana o demoniaca o altro) di un soggetto (o di noi stessi) divergano da quelle di qualcun’altro.

Qui accennerò solo che discorso “scivola facilmente” sul religioso. Chi mi parla ad esempio: di “crisi psicotiche” dovrebbe innanzitutto dirmi in che cosa una “crisi psicotica” si differenzia da un autentica esperienza religiosa, spesso terrificante e comunque in grado di “sopraffare” il soggetto. Libertà religiosa vuol dire innanzitutto non essere giudicati e/o detenuti a causa dell’incontro con “il piano di sopra”, indipendentemente da come lo si concepisca (spesso l’altro/altra è visto come “l’estraneo per eccellenza”, quindi potenzialmente divino – si legga l’Odissea di Omero al proposito – e sempre e comunque: come portatore di “pathos” interpretabile benissimo e legittimamente come pericoloso). Sul tema comunque ritornerò…

4) Il mito dell’autonomia e dell’autosufficienza, il “bisognoso di cure”.

Spesso una reale o presunta non autosufficienza di un soggetto viene presa a pretesto per negargli la possibilità di fare determinate scelte. Tutto ciò si basa sull’assunto mitologico secondo cui al contrario esistano persone autosufficienti “per loro natura”, e anche su altri ragionamenti parimenti illogici.

Oggi anno 2021 una persona analfabeta o anche solo “analfabeta digitale” non è assolutamente in grado di “vivere autonomamente” nella nostra “collettività”. Nell’anno 1000 tutto ciò era la norma. Qualche annetto prima, Carlo Magno rimase analfabeta, nonostante disponesse dei migliori insegnanti dell’epoca. Fortunatamente in quel periodo non c’era nessuno che gli diagnosticasse qualcosa di “moderno”. Già questo dovrebbe dirci che non esistono persone di per sé autosufficienti ma è la società in cui una persona vive a determinare (e, come dicono gli anglosassoni, in modo “random”) se un soggetto è autosufficiente o meno, a prescindere dalle caratteristiche del soggetto in questione.

Purtroppo assistiamo a un meccanismo pseudo-logico di pensiero per cui se un soggetto ha bisogno di essere assistito (e anche lì…andrebbe visto il se e il perché, ma soprattutto se lui/lei vuole o meno esserlo), l’assisterlo significherebbe far il possibile per impedirgli tutto ciò che secondo noi potrebbe nuocere a lui/lei o a altri. Se una persona ha bisogno di assistenza e la chiede, questa deve fermarsi al momento che lui/lei smette di volerla, e limitarsi a ciò che il soggetto vuole (oltre ad altre considerazioni che vedremo più avanti). Se non la chiede ma mettiamo: è in pericolo di vita, ovviamente questa assistenza può essergli data senza che il soggetto “espliciti cosa vuole” a condizione che il soccorritore sia davvero disposto a mettere in discussione il suo comportamento ( ad esempio chiedendosi: era davvero necessario? Ho rispettato quella che sarebbe stata la sua volontà se avesse avuto il tempo di esprimerla?). Il fatto però che un buon samaritano assista una persona “x”, non dà al buon samaritano in questione nessuna “autorità morale” sul soggetto soccorso, né soprattutto (e qui spesso ….) implica che il buon samaritano sappia meglio del suo assistito cosa sia opportuno e cosa sia masochista fare o non fare.

Peggio ancora”, il dire che una persona è “bisognosa di cure” è esso stesso un negare la libertà di scelta del soggetto, anteponendo a questa libertà una nostra valutazione. Questa mia affermazione, sembra un sofismo, ma è un tema che ha pesanti ripercussioni pratiche nella vita di tutti i giorni. Una persona può volere qualche tipo di “cura” (dubito che esista qualcuno che le voglia assolutamente tutte, dall’elettroshock alla colonoscopia, passando per i bagni termali e l’antica pratica del tatuaggio terapeutico), oppure no, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Se non vuole essere curato oppure se vorrebbe essere curato solo in modo “x”, oppure solo da “y” o anche solo nel modo “z” , e noi diciamo invece genericamente che è “bisognoso di cure” neghiamo la libertà di scelta di lui/lei. Quello che è davvero importante è se il soggetto vuole “essere curato ” (oppure no), in che modo e da chi (e per quanto tempo).

B)Adesso parliamo di psichiatria e di coloro che ne sono soggetti

Bisognerà cominciare con il dire che anche astraendo dalla diffusa minaccia (che può essere implicita o esplicita) del TSO, “in zona psichiatria” almeno ¾ dei pazienti, se non di più “entrano e rimangono” solo a causa (quando non appunto di violenze “in atto”), di minacce esplicite o implicite (magari persino da parte della propria famiglia o dal posto di lavoro), che possono essere di vario genere: anche il dire: fai come ti dico io o starai male è comunque una minaccia; un medico “degno di questo nome” direbbe: fai come dice la scienza medica e spero che tu guarisca in ogni caso.

Non essendoci in psichiatria “una malattia”, come abbiamo visto all’inizio è difficile sperare in una guarigione. Anche fuori dal reparto ospedaliero i soggetti marchiati con una diagnosi psichiatrica vengono vessati in un numero troppo grande di modi diversi perché io qui mi metta a farne una casistica: si và dalle visite domiciliare “coatte”, fino al ritiro della patente. Esistono anche “case famiglia” per “disabili psichici” e strutture para-ospedaliere “per tutti i gusti”. Impossibile non citare “en passant” il lavoro in pratica “coatto”, a cui talun* vengono sottoposti, lavoro che può prendere il nome di “terapia occupazionale” e che si risolve, quando non nell’obbligatorio trastullarsi in cose inutili, nello svolgere dei compiti senza essere pagati quanto altr* e/o senza i diritti che hanno gli altr*, ma soprattutto: senza essere liber* di fare altre cose.

Un dato di fatto che “salta all’occhio”, entrando “in area psichiatria” è il livello di “non-verità” negli enunciati di psichiatri e persino del personale infermieristico e tecnico. Si capisce facilmente da dove, nella pratica, vengano fuori le disquisizioni di Basaglia (7) sui rapporti tra realtà e ideologia, tema su cui non mi soffermerò, benché effettivamente coerente con il nostro argomento.

Se una persona “x” pronuncia un enunciato su cui lui stesso non sarebbe d’accordo, possiamo dire che “mente”. Ugualmente possiamo dire che “mente” se nasconde o omette di dire qualcosa che sarebbe tenuto a dire. Ora, anche fuori dagli spazi in cui si esercita la psichiatria … ”Le menzogne sono oltremodo diffuse”. Tuttavia solo gli psichiatri hanno il cosiddetto “privilegio terapeutico”, se non sbaglio persino riconosciuto “ex lege” di mentire ai pazienti sui farmaci. E, se “le balle” finissero qui, sarebbe “culpa levis”. Il grave è appunto il confronto con l’esterno. Fuori dagli spazi in cui si esercita la psichiatria, la “non-verità” è a) è normalmente intenzionale, b) viene esercitata con un “range” ristretto di metodi e c) è generalmente funzionale a qualche scopo razionale.

In area psichiatria”, dato che viene postulato un difetto nel pensiero dei pazienti, è facile che qualche “balla” venga a loro detta “fuori da ogni intenzione”. I metodi per non dire la verità sono del resto tantissimi. Si evita di affermare, o di confermare che ad esempio “x = 2”. Si “soggettivizza” la questione. Si esamina il modo in cui la questione è posta, per non entrare nel merito della stessa. Si evita una disamina degli argomenti che depongano contro la tesi che si sta sostenendo. Eccetera.

Quando, come spesso avviene, “x è ritenuto essere uguale a” , la “non-verità” più comune consiste nel non entrare nella disamina sul perché x sia ritenuto uguale ad a, In effetti si cade nella disonestà intellettuale dicendo che “x = a”. Il “minimo sindacale” è lasciare “aperta” ogni questione di cui non si hanno “prove matematiche”, non tacendo affatto la propria opinione in proposito (altro modo usato a volte per mentire ) ma appunto: sottolineando che ciò “non è vangelo” (altrimenti non è un opinione ma una menzogna).

L’unico scopo razionale effettivamente esistente per molte “balle” (il fatto che pronunciarle o tacere la verità sia considerato terapeutico non è uno scopo razionale: è uno scopo ideologico) è la mancanza di tempo. Tuttavia, fuori dai reparti psichiatrici, se un tema richiederebbe dieci ore per venire decentemente trattato e non si ha questo tempo, si impiegano formule del tipo “scusandomi per la mancanza di tempo che mi impedisce di trattare decentemente la questione, sono costretto a banalizzarla dicendo che….”. Quindi la mancanza di tempo viene, in questo caso affermata come parte integrante della “verità del momento”. Simili formule sono pressoché sconosciute nella pratica psichiatrica…

E tutto ciò “non è ancora il peggio”. Mettere in discussione una diagnosi, soprattutto se è una diagnosi di schizofrenia, o di psicosi o simili, cosa che dovrebbe essere considerata come “il minimo sindacale” richiesto dal paziente a uno psichiatra “amante della verità” è invece visto come prova stessa della patologia del soggetto. O quantomeno come il segno del suo aggravarsi. Quindi la schizofrenia è davvero un dogma religioso, di cui non è dato dubitare, come ha notato giustamente qualcun’altro ( 8). Inutile aggiungere che, da parte dello psichiatra, un simile atteggiamento è “disonestà intellettuale” per eccellenza.

Difficile “fare una colpa” agli infermieri per le menzogne che essi dicono, perché in genere essi mentono su indicazione di altri, e sono soggetti a ogni ricatto. Degna di menzione, per la sua diffusione e per le sue ripercussioni, è però la non-verità, spesso da essi enunciata persino in buona fede e senza particolari “pressioni dall’alto” secondo cui le visite ai pazienti in TSO sono condizionate all’approvazione del medico o sono soggette ad altre condizioni. La legge afferma invece che devono poter avvenire “punto e basta”. Chiaramente ci sono dei limiti dettati dal “buon senso” (chiaramente non ci possono essere visite la notte etc.), e persino accettare (o meno) delle limitazioni arbitrarie a ciò può essere “consigliabile”.  Tuttavia, di nuovo “ex lege”, queste visite devono poter avvenire. Anche la comunicazione per telefono o tramite internet, tra il paziente in TSO e le persone che rimangono fuori, deve poter avvenire per legge “senza alcun vincolo”. 

Come dicevo all’inizio, gli strumenti veri e propri della psichiatria si caratterizzano per cercare di togliere specificatamente appunto la capacità (o la volontà) del soggetto di autodeterminarsi; un tassello importante è cercare di convincere il soggetto, in modi più o meno razionali a (dover) cambiare qualcosa nel suo modo di interagire con gli altri o con sé stesso, o comunque di essere “bisognoso di cure”.

Anche se si trattasse solo di “dialogo” (qui faccio un breve accenno, ma tornerò sull’argomento), offrire delle soluzioni “dall’alto” ovvero far intendere che queste non possano essere trovate dal soggetto in modo indipendente è sottrarre al soggetto qualcosa della sua capacità/libertà di autodeterminazione.

La cosiddetta “psicosi”, le cosiddette “crisi psicotiche”, la schizofrenia

Come ho accennato all’inizio ampliare il campo del “patologico” fino ad includere assolutamente tutto è una delle tendenze della psichiatria contemporanea. Se tutto è “sofferenza psichica” e “patologia” allora nulla è patologico e la psichiatria non ha ragione di esistere, se non come esercizio teorico. Ma questo non è coerente con tutto l’armamentario di ricoveri coatti e di farmaci imposti per forza che la psichiatria “si tira dietro”.

Esiste il famoso metodo della dimostrazione per assurdo. Se non si vuole che la psichiatria non abbia alcuna ragione di esistere bisognerà tracciare un confine, ad esempio: tra legittima esperienza religiosa e esperienza patologica. Ovviamente la legittima esperienza religiosa, mettiamo : di Padre Pio con le sue stigmate, di Santa Ildegarda con le sue visioni, dei colloqui con il diavolo, degli incontri con Dei travestiti da mortali dell’Odissea, dell’eterna relazione conflittuale con elfi e folletti e quant’altro, deve essere salvaguardata dall’essere soggetta all’ armamentario di cui sopra. Dato che la libertà religiosa è un diritto riconosciuto dalla nostra costituzione, perché esso venga salvaguardato il confine deve essere quantomeno “netto e quello”. Nella pratica psichiatrica invece se c’è un confine, non è “molto ben definito”.

Quindi, di nuovo (dato che questa domanda farebbe evolvere la stessa psichiatria) in che cosa una “crisi psicotica” si differenzia (e deve differenziarsi, pena l’assurdità e l’illegalità di ogni diagnosi di psicosi) da un autentica esperienza religiosa, spesso terrificante e comunque in grado di “sopraffare” il soggetto?

Molti “santi” riconosciuti formalmente tali dalla chiesa cattolica esprimevano concetti religiosi in aperto contrasto con le credenze dei loro contemporanei. Si hanno santi che non venivano capiti da nessuno, santi con una relazione difficile con il prossimo, incluso in certi casi le stesse gerarchie ecclesiastiche, i loro familiari e via discorrendo. Quindi i rapporti che la persona ha con il resto dell’umanità e con il mondo in generale “non fanno testo”. Neppure i rapporti del soggetto con sé stesso “fanno testo” perché ci sono stati “santi” con tanto di “riconoscimento ufficiale” che apertamente odiavano sé stessi.

Né lo “stile di vita”può darci qualche indicazione. Ci sono stati santi eremiti e anacoreti, e anche santi “stiliti” che oggigiorno rischierebbero di passare per esibizionisti vista l’impossibilità fisica di espletare i propri bisogni dall’alto di una colonna senza essere visti.

Ma il cristianesimo non è più la “religione ufficiale”. Ci può essere una religione come il buddismo senza un dio, oppure come i culti ufologici. Non è necessario quindi che il soggetto riconosca la natura “soprannaturale” dell’esperienza.

Punto focale della riforma luterana fu proprio l’affermare la libertà interiore del soggetto di cercarsi un suo proprio personale rapporto con ciò che non è razionale. Però, se “ribaltiamo la prospettiva”, parlare di “psicosi” e “schizofrenia”, sottintendendo “la necessità” di farmaci e magari di ricovero coatto, non è un metodo che possa dirsi accettabile per porsi di fronte a un soggetto che non comprendiamo. Se chi parla in questi termini poi non accetta che il soggetto stesso “metta in discussione” la cosiddetta “diagnosi”, siamo nel campo del dogma religioso, e non è accettabile che questo venga imposto dall’esterno a persone non consensienti.

Coloro che invece si ritengono malati, e che desiderano essere “aiutati”

Già in “medicina generale” si deve affrontare il problema di coloro che vogliono i più dolorosi interventi chirurgici senza che ci sia un’effettiva necessità. L’esempio più banale, del resto molto più comune di quello che normalmente si crede, è quello degli esami medici, a volte fisicamente spiacevoli, pensiamo ad esempio ad una colonoscopia, ma che vengono “chiesti a gran voce” da alcuni pazienti, anche quando la scienza medica non li crede necessari…

Come ho già detto “in zona psichiatria” almeno ¾ dei pazienti “entrano e rimangono” solo a causa, di minacce esplicite o implicite. Bisogna anche aggiungere che gli appartenenti all’infima minoranza di pazienti volontari reali, e non costretti né dalla famiglia, né dal datore di lavoro, né dall’assistente sociale etc. spesso non hanno idea del fatto che “da quella porta si entra facilmente ma normalmente non se ne esce”.

Però esistono persone che si ritengano “malati” e “bisognosi di cure psichiatriche/psicologiche/etc.”, ed è possibile persino trovare tra di loro esempi di persone consapevoli di ciò che tutto questo comporta. Ovviamente è assolutamente lecito che un soggetto si auto-consideri tale…Esaminiamo le cose “da un’altra prospettiva” . Quando una persona considera il pensiero o il modo di relazionarsi con il mondo di un altra persona come “difettoso” al punto di credere di sapere meglio del soggetto stesso di cosa lui/lei abbia bisogno, entriamo quantomeno in un terreno “molto scivoloso”. Indipendentemente dal fatto che il soggetto sia il primo a considerarsi “difettoso” quando sei tu a considerarlo tale, hai “l’onere della prova” di dimostrare te stesso “migliore”, prova che spesso persino i migliori psichiatri -quasi sempre- falliscono.

Comunque il considerare sé stessi “bisognosi di cura” è una libera scelta, e non un qualcosa che “è dato di fatto”. Il modo migliore di aiutare costoro, sarebbe tuttalpiù quello di convincerli a fare autonomamente una scelta diversa. Obbiettivo questo, che quasi mai è coscientemente perseguito “in zona psichiatria”. Ancora meglio sarebbe lasciare che “il paziente” pervenga autonomamente a una diversa conclusione…

Considerazioni sull’uso dei farmaci

Una sofferenza psichica atroce e intollerabile è, a mio avviso, una costante dell’esperienza di vita di qualsiasi essere umano. Questa può avere vari “sbocchi” e manifestarsi in modi abissalmente diversi. La soluzione può essere cercata in tanti campi : attraverso la filosofia, l’arte, magari persino : la lotta politica e “di classe”. Cercarla attraverso i farmaci (qualsiasi essi siano) non può che dar luogo a una tossicodipendenza. Se questa è la libera e consapevole scelta del soggetto, non c’è nulla di male. Perché sia appunto una scelta libera, dato che ci sono tante cose che vengono socialmente accettate molto meno di una tossicodipendenza, specie da farmaci, e dato che questa tossicodipendenza potrebbe essere “spinta” dal contesto sociale che vede in essa un alternativa a comportamenti meno accettati, bisogna che “la collettività” si renda finalmente conto che qualsiasi tipo di comportamento, e di interazione con sé stessi e con gli altri, ha lo stesso valore (anche se non magari la stessa “condivisibilita’”) al netto di ogni giudizio morale / religioso . Quindi qualsiasi farmaco sarà “legittimo” dopo la fine della “legittimità” del giudizio psichiatrico nella coscienza popolare (oltre che dopo la fine della sua validità giuridica che predispone all’obbligatorietà dei farmaci psichiatrici).

Potremmo fare anche varie considerazioni sul concetto di “consenso informato”. Se và oltre il “consenso informato”, un medico non è più un medico, ma diventa qualcos’alto. Se un paziente “non è ritenuto capace” di consenso, il medico che lo considera tale dovrebbe proprio per ciò limitare il suo intervento allo stretto necessario per mantenerlo in vita. A parte questo caso estremo, “consenso” significa poter dire “si o no” senza che si adottino misure legali. “Informato” significa aver elencato comunque tutte le possibili alternative e tutti i possibili “effetti collaterali”.

Il dialogo come esercizio del potere

Non c’è bisogno di andare “in zona psichiatria” per sperimentare che anche il dialogo, “il dialogo e basta” può essere una forma di tortura. Per questo è sufficiente frequentare “I tutori della legge”. Se il dialogo viene esercitato tra una persona “che può e che sa” e un’altra che invece “non sa e non può” (es. Il dialogo tra un poliziotto e un normale cittadino), è facile che si arrivi ad una forma di tortura, tanto più se il soggetto arriva al momento del dialogo “provato” da vicessitudini varie, e particolarmente se questo dialogo non si può evitare, pena che succeda qualcosa di peggio. In “area psichiatria” è difficile che il dialogo abbia altri intenti che quelli di “convincere” il soggetto che c’è qualcosa che deve essere cambiato nel suo modo di pensare o di relazionarsi con il mondo, quindi l’intento è analogo a quello di ogni altro metodo usato. Il dialogo è “una buona cosa” se e quando rispetta invece 3 condizioni:

a) parità tra gli interlocutori, anche in termini di conoscenze e possibilità d’azione.

b) nessuno degli interlocutori vuole che l’altro “cambi” qualcosa di sè stesso, nè che “riveli” qualcosa di sè contro la sua volontà.

c) c’è un reale consenso (ossia una volontà dei soggetti non una necessità delle circostanze) tra gli interlocutori sui tempi e sulle forme in cui il dialogo avviene.

Al di fuori di queste tre condizioni, il dialogo è una forma di potere che viene esercitata.

C) Come può combattere la psichiatria chi ne è “paziente”

In tutti i campi e in tutte le circostanze della vita, è più facile “urlare e disperarsi” che lottare davvero per i propri diritti. A questa regola generale non sono esenti coloro che purtroppo si trovano a dover fare affrontare in prima persona la psichiatria. Bisogna ricordarsi sempre che “il vittimismo non serve a niente” (9 ) nè servono pianti e lamenti.

Premesso che è impossibile imbarcarsi in una enumerazione delle possibili circostanze e delle cose che è opportuno fare non fare, data la pervasività della psichiatria nella società contemporanea, cercherò di “mettere nero su bianco” alcune regole generali e alcune “situazioni ricorrenti”.

Qualunque disgrazia, anche l’essere soggetti al “giudizio psichiatrico” può (e forse dovrebbe) diventare occasione di lotta politica e persino di “arricchimento culturale”. Trovare “un perché” alle cose che ci succedono è sempre importante, non “il perché” che ci viene proposto, ma un “perché” che sia realmente la nostra spiegazione, che ha valore proprio in quanto (e fin quanto)  è la nostra “versione dei fatti”e non quella di qualche altr*. I libri di autori come Giorgio Antonucci o Giuseppe Bucalo possono essere un punto da cui partire se non si ha nessuna idea su come farlo. 

Statisticamente inutile è cercare di convincere uno psichiatra che ha torto, se chi cerca di convincerlo è un suo paziente. Si veda di nuovo l’esperimento Rosenhan di cui parlavamo all’inizio. Alcuni ritengano che il “paziente” si tuteli meglio mentendo (“riconosco di essere malato”, “desidero curarmi”), e io non dubito che in certi casi, questa possa essere “la scelta migliore”, e quella che può dare risultati nell’ordine del “breve e medio termine” (giorni, settimane e mesi) , tuttavia confesso qualche dubbio sul se possa essere una strategia vincente “nel lungo termine” (anni), e se appunto possa essere inclusa in un discorso di “lotta politica”.

Contro un Tso si può fare ricorso, e chiunque può fare ricorso contro un Tso di chiunque altro. Ricorsi da parte di “non ricoverati”, scritti argomentando in base alla legge il caso specifico, ripetuti ad ogni rinnovo (ogni 7 giorni), “formalmente ineccepibili” e, di nuovo: con argomentazioni giuridiche sensate e specifiche (non “copia-incolla” per intendersi), “fanno un loro effetto”. Ci vuole tempo, costanza nel presentare i ricorsi, ci vuole che essi vengano fatti da un congruo numero di persone, possibilmente del comune stesso in cui avvenga il Tso. Al proposito si ricordi che il fatto che il soggetto assuma i farmaci in forma orale è già “sbandierabile” come prova giuridica del fatto che il soggetto stia accettando le terapie, dato che il rifiuto delle stesse è tra le condizioni “ex lege” perchè un Tso venga effettuato e si rinnovi. Anche questo è eventualmente comunque da argomentare entrando nel caso specifico. 

[aggiungo dopo aver ricevuto costruttive critiche: il “senso” dei ricorsi non è tanto quello che un ricorso potrebbe essere accolto. Il “senso” è che lo psichiatra che agisce nel “buio” del reparto-SPDC-etc,  agisce in un modo. Lo psichiatra che invece si trova di fronte ad una situazione in cui ad ogni rinnovo di un TSO questo TSO viene -> dall’esterno della struttura in cui opera, puntualmente contestato da -mettiamo- una decina di punti di vista diversi, che entrano nello specifico di quel TSO, presentando ricorsi con argomenti giuridicamente validi, agisce in modo diverso. Soprattutto: con il passare delle settimane. ]

Anche da parte di un ricoverato in Tso è possibile firmare una diffida contro una determinata terapia, tuttavia io sono scettico sulla reale incisività di simili diffide.

Il coinvolgimento di un avvocato (ci sono avvocati che fanno volontariato in varie associazioni, è comunque possibile in vari modi “averne uno gratis”), dovrebbe essere considerato dal soggetto come “cosa banale” invece spesso non lo è. Ovviamente ci sono anche avvocati “pessimi”, ma …

Esistono vari collettivi, associazioni, la cui intenzione è quella di opporsi all’azione della psichiatria, io consiglio di provarli tutti fino a trovare quello che va bene per le esigenze del singolo. Contattarli “non in sequenza”, prima uno e poi un altro, ma “in contemporanea”, non solo nel caso di qualche emergenza, ma anche come “misura preventiva” così da avere più suggerimenti su come uscire da una data situazione, cosicché tu che sei soggetto alla psichiatria vedrai da solo che le possibili strade sono molte, devi essere te a scegliere quale percorrere, e non a lasciare che gli altri scelgano per te.

Da un ricovero “volontario” (spesso frutto di minacce o “pressioni varie”) è possibile (ed è la via più facile) uscirne approfittando di una “libera uscita” specialmente se questa avviene accompagnati da qualcun’altro (di esterno) che è d’accordo “sull’andarsene”. Teoricamente è possibile anche “firmare e uscire”, e questo sarebbe formalmente anche meglio, tuttavia nella pratica potrebbe essere davvero un’ impresa. Di nuovo : “ogni caso è una storia a sé”, ed è il soggetto a dover valutare cosa fare e come farlo. Anche se si decide di “firmare e uscire” (e di nuovo : formalmente sarebbe meglio), “i testimoni aiutano”, soprattutto se “scelti con criterio”. 

Cambiare comune, ossia andare ad abitare altrove, quantomeno oltre i limiti della Asl “di riferimento” può essere la scelta migliore in molti casi. Soprattutto: una volta usciti dal reparto dell’ospedale. “Nessun luogo vale un assedio”, in molti casi pochi km di distanza “fanno la differenza”, e comunque, nei casi peggiori, (quando si parla di “pericolosità sociale” associata a una diagnosi “in area psicosi”) io non esito a suggerire se le circostanze lo permettono, e appunto :  “come extrema ratio”, persino l’espatrio. Con pazienza e organizzazione si possono fare cose che sembrano impossibili…San Marino, la Svizzera o un paese Ue “non sono la prima scelta” da fare in questi casi, ma potrebbero comunque ( a seconda dei casi) essere “una scelta da considerare” se l’alternativa è subire “tutto un assedio”, ovviamente dopo l’aver esaurito le altre possibilità, primo la consultazione di associazioni e collettivi, secondo la consultazione di avvocati, etc.

La soluzione migliore, e “buona per tutti i casi” anche se molto generica, rimane quella di Kant: “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”. Della tua. Non di ciò che dicono gli altri. 

Note:

(1) https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Rosenhan

(2) per essere esatti dovrei parlare di realtà al plurale, come vedremo in seguito.

(3) Oltre ai dubbi già espressi da Basaglia, recentemente abbiamo le critiche al DSM espresse dal Pietro Cipriano. Si veda P.Cipriano “Il manicomio chimico” ed Eléuthera, Milano 2015 , e P.Cipriano “La società dei devianti” ed Eléuthera, Milano 2016

(4) Carl Gustav Jung, Introduzione alla psicologia analitica, Universale Bollati Boringhieri editore, Torino 2000, pag. 149

(5) W Reich La rivoluzione sessuale. Massari editore, 1992, Bolsena (VT), pag. 74

(6) si veda Leary Timothy “High Priest”, ed. New American Library, New York 1968

(7) si vedano i saggi “Condotte perturbate” e “Crimini di pace” in Basaglia Franco, L’Utopia della realtà, Enaudi 2005

(8)Szasz T. Schizofrenia: simbolo sacro della psichiatria, Roma: Armando, 1984

(9) Abatangelo Pasquale, Correvo pensando ad Anna, Edizioni DEA, Firenze 2017 pag. 261


Una sorta di necrologio….

Giorgio_Antonucci

[…] la diagnosi psichiatrica è, ancor prima del manicomio, una via degradante senza ritorno. Infatti alcuni si suicidano, preferendo la morte, per non vivere come uomini di second’ordine. Però queste cose nessuno le dice. Se ne dicono altre. Si dice:”Dove li mettiamo i malati di mente perché non gravino sulle famiglie?”. Però alla domanda: “Ma cos’è questa malattia di mente?” lo specialista illuminato risponde con aria di competenza: “La malattia di mente è un mistero”. Non si dice che ognuno di noi può essere arbitrariamente giudicato malato di mente o sano di mente secondo le convenienze di chi comanda. E non si parla di una società umana violenta in cui i figli uccidono i genitori, i genitori maltrattano i bambini, le madri mandano i figli in carcere e tutta la vita familiare si svolge sul ricatto e sull’ipocrisia, ma soprattutto sulla mancanza di libertà. Così ci deve essere una disciplina che scheda le persone e le rinchiude col pretesto di aiutarle a vivere.” (1)

L’orrore e l’eccezionalità dei lager nazisti risiede anche (e, per chi scrive: soprattutto) nella divisione che veniva operata tra “umani” e “subumani”. Eccezionalità, perché sebbene la storia riporti altre campagne di genocidio, questa divisione, la pretesa di “scientificità” con cui era operata, e lo scrupolo con cui era condotta, ne facevano qualcosa di inedito. Se si vuol vedere qualcosa di simile, a parere di chi scrive, bisogna visitare (sempre che ve lo permettano!) il locale CSM (Centro Salute Mentale) o il locale SPDC ( Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura). Se la crudeltà è comunque minore, l’ipocrisia è certamente maggiore.

Varie fonti (2) riportano la notizia della morte, di Giorgio Antonucci, psicanalista, tra i principali esponenti dell’antipsichiatria in Italia. Sul piano pratico, dopo un periodo al fianco di Basaglia a Gorizia viene ricordato per il suo lavoro ad Imola, dove abolì i sistemi di contenzione fisica, fino allo “smantellamento” dei locali ospedali psichiatrici. Sul piano teorico, se da un lato proseguì quello che aveva già cominciato Basaglia, dall’altro si fece portavoce di una critica più radicale. In un intervista con Dacia Maraini (3) ad es. afferma: “E nel ‘68 che si è cominciato a discutere pubblicamente sull’esistenza o meno della malattia mentale. Io ho lavorato con Basaglia nel ‘69. Lui la malattia mentale la vede come una cosa dinamica che investe le persone meno resistenti. Per me la psichiatria è un’ideologia che nasconde i problemi reali delle persone ricoverate. Freud stesso diceva che occupandosi dei conflitti nevrotici aveva smesso di fare il medico e si era messo a fare il biografo”. Nella stessa intervista, come nelle sue opere, arriva a esporre una concezione che, sebbene possa ormai vantare anche molti altri sostenitori a livello internazionale, rappresenta senza dubbio un notevole passo in avanti rispetto alle ideologie oggi dominanti: “i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata.”

Ebbe vari riconoscimenti internazionali alla sua opera (4). Di lui rimane soprattutto “il sasso nello stagno” che ha gettato. Speriamo che i suoi successori sappiano continuare la portata rivoluzionaria della sua opera.

Qui parto con le “considerazioni personali” ovviamente: le mie, ossia del vostro affezionatissimo. Si può immaginare una psichiatria senza “costrizioni fisiche”. E sarebbe già un bel passo in avanti. Quantomeno si limiterebbero i morti per TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Si può immaginare una psichiatria “con meno farmaci”. E sarebbe già un bel passo in avanti. Quantomeno si limiterebbero i danni fisici. Ma tutto ciò non diminirebbe minimamente l’orrore che è la psichiatria. Persino il dialogo può essere una forma di tortura, se è esercitato come una forma di potere e/o è un dialogo tra una persona che può e che sa e un’altra che invece…

Sul tema “sofferenza” non è certo una forma di rispetto etichettare certe sofferenze come “patologiche”; bisogna anche sottolineare il fatto che accettarle come “normali” è al contrario non solo molto più rispettoso, ma è anche più “costruttivo” nell’ottica di superale. Superamento che, è bene dirlo,  può essere un opzione (e mai deve essere l’unica opzione) se e soltanto se c’è una consapevole scelta del soggetto in tal senso, scelta presa “nella sua solitudine”. Se invece è necessità imposta dall’esterno, si cade invariabilmente nel campo di orrori simil-nazisti.

Chi scrive è peraltro convinto che ad es. depressione, stati d’angoscia, allucinazioni, “dispercezioni” etc. (l’elenco può essere lunghissimo), vadano considerati come parte inseparabile della “normale”  esperienza di vita dell’ individuo “umano”. Neppure l’ateo più incallito negerebbe a Padre Pio il diritto di avere le stigmate (quindi Padre Pio viene considerato come “umano”), a una buona fetta della popolazione viene invece negato il diritto alla classica “crisi di nervi” (quindi non vengano considerati “umani”) pena farmaci, reclusione, etc.

Due punti mi sembrano fondamentali ragionando su questi temi: il primo consiste nel dovere morale che ognuno di noi ha sempre, in ogni momento, di accettare, rispettare o quantomeno: non contrastare le azioni di un individuo (chiaramente: purchè e finchè resta “un individuo”, e non una società, un gruppo, una funzione sociale, etc.) che si pone contro una società, storicamente e fisicamente definita anche quando questo contrasto assume forme “perturbanti”, e soprattutto anche quando non comprendiamo né magari condividiamo le ragioni che lo muovono.

Il secondo: ricordiamoci sempre che purtroppo “Il fatto che il principio stesso di realtà sia relativo, che serva gli interessi della Chiesa e del capitale e che siano questi a definirlo, è escluso dalla discussione, in quanto questione politica che, dicono, non ha nulla a che fare con la scienza. Il fatto che anche la sua esclusione sia politica non viene colto affatto” (5). Mettere in discussione “il principio stesso di realtà” è un compito etico a cui non possiamo in nessun momento sottrarci. Se poi si vuol parlare di scienza, questa può iniziare solo con il continuo dubitare delle certezze acquisite, (quindi anche del principio stesso di realtà) come Galileo Galilei ha convincentemente dimostrato..

 

 

(1) Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico. Ed. Sensibili alle foglie, seconda ed. 2005 Roma ,pag.98

(2) ad es. http://www.leggilanotizia.it/notizia/13259/antonucci-lo-psichiatra-che-non-voleva-i-manicomi

(3) http://www.nopazzia.it/Antonucci/marainiantonucci.htm

(4) ad es. http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2017/05/27/thank-you-for-being-a-champion-of-human-rights-per-il-dottor-giorgio-antonucci/

(5) W Reich La rivoluzione sessuale. Massari editore, 1992, Bolsena (VT), pag. 74