L’autunno tedesco

(ripubblicato qui, con varie aggiunte)

Quante volte, solo a distanza di anni, ci rendiamo conto dell’effettivo significato di una conversazione, di un discorso? E quante volte gli stessi protagonisti non si rendono conto di quello che stanno dicendo? E quante volte solo una terza persona può capire “il nocciolo del problema”? Persino molto al di là delle intenzioni dello stesso autore, quest’ultima domanda salta particolarmente in mente leggendo “L’autunno tedesco” di Peter-Jürgen Boock, “romanzo documentario” (in Italia edito dalla DeriveApprodi, Aprile 2003) che narra, nella prospettiva soggettiva dell’autore-protagonista, una pagina di storia tedesca ancora discussa. Il titolo si rifà al famoso documentario “Germania in autunno”. L’autore, dopo un’adolescenza problematica in cui sperimenta l’oppressione della famiglia e la violenza dello stato, viene a contatto con gli elementi che fonderanno la RAF (Rote Armee Fraktion, -frazione dell’Armata Rossa- gruppo rivoluzionario tedesco ). Al momento in cui questi ultimi verranno incarcerati, decide di darsi da fare per liberarli. Siamo nell’estate del ’76. Insieme ad altri, sequestra il presidente della confindustria tedesca, (Hanns-Martin Shleyer, già gerarca nazista, poi alfiere del capitalismo “mannaro” della Germania Occidentale del secondo dopoguerra) per usarlo come “merce di scambio” per ottenere la loro liberazione. Fin dal momento dell’agguato, il gruppo si trova ad essere succube degli eventi. Sulle soglie della consapevolezza di essere guidati dagli avvenimenti che si susseguono, piuttosto che esserne gli artefici (del resto, commento io, come tutti in qualsiasi situazione), i protagonisti si barcamenano alla meno peggio, nell’estema stanchezza, tra traslochi con l’ostaggio e trattative con le autorità. Risalta impevista l’umanità (non vogliamo chiamarla ordinarietà?) di tutti i coinvolti, da Shleyer, che si preoccupa della sorte che è toccata al suo autista (e questa è la prima domanda che pone al gruppo), ai “rapitori” , che si preoccupano continuamente dell’impressione che stanno dando all’”ostaggio” (fino al punto che una di loro verrà sorpresa a giocarci a monopoli). E di questo l’autore è assolutamente consapevole…Ma attraverso questa “banalità”, la figura di Shleyer (chiamato familiarmente “Spindy” dal gruppo ), malgrado i sensi di colpa ammessi dell’autore, filtra una luce diversa, potremmo dire “in filigrana”….Oggi, possiamo forse (?) vedere più chiaramente l’assenza di positività (ma anche, di necessità) dello sviluppo economico e industriale di cui “Spindy” tesse – senza venire realmente contraddetto- le lodi al gruppo….I cui componenti, pur intuendo confusamente la continuità – di cui “Spindy” è esemplare- tra passato nazista e presente (1977) “industriale”, non riescono proprio a trovare “il bandolo della matassa” e rimangono frustrati nelle loro intenzioni polemiche di fronte all’uomo in carne ed ossa; che risponde cordialmente alle domande, si mostra umanamente interessato agli operai, e non risponde alle provocazioni…Anche se lo stesso uomo nota con una certa sfrontatezza che “nel 1944 il paese toccò il suo massimo indice di produttività” (pag. 93) oppure rinfaccia agli interlocutori: “senza quella generazione, che non è responsabile solo dei crimini del nazismo, ma anche della ricostruzione di un paese distrutto, voi non ve la sareste passata tanto bene” (pag.77)….I “sequestratori” non riescono a contrapporgli che argomenti morali, di cui sono i primi a confessare la relatività…Dimenticando così i motivi concreti che li avevano portati fino a quel gesto. La contrapposizione tra di loro diviene quindi una contrapposizione di anime spinte dal destino. E qui apro una digressione, “con il senno di poi”. Se i paesi del “blocco orientale”, analogamente agli stessi Stati Uniti, potevano (e in qualche misura …) trovare una qualche giustificazione etica e morale al progresso industriale nell’esplorazione dello spazio, e -nel caso statunitense- nell’apertura in generale di “nuove frontiere”, lo sviluppo industriale della RFG (Repubblica Federale di Germania), la cosiddetta “Germania ovest”, appare -di nuovo “con il senno di poi” particolarmente povero di qualsivoglia giustificazione nelle sue azioni e omissioni. Questo non era un problema esclusivo della RFG , ma qui si parla di Germania. Persino la famosa contrapposizione alla RDT è difficile da concepire se non in un contesto di accesa “paranoia reciproca”, paranoia certo auto- indotta e funzionale al mantenimento di determinati equilibri, ma che noi “posteri” stentiamo davvero a credere “ragione sufficiente” di fronte a “bestialità” come l’esistenza -e persino lo sviluppo!- di “cose” come la Borsa di Francoforte. E che certo non ci sembra sufficiente a confronto con le sofferenze (e la schiavitù salariata) di milioni di persone (se esaminiamo solo l’area tedesco-occidentale) che ha portato. Ma, al di là delle “scuse morali” ( o della loro assenza), il richiamo costante alla concretezza dei fatti è la lezione che Marx non è riuscito a “passare” a molti suoi epigoni. Che così fanno “misera scena” di fronte ai più spudorati sostenitori “del vivere all’inferno perché così ci piace”. Fine digressione. La vicenda narrata da Peter-Jürgen Boock finirà in tragedia, malgrado tutti. Proprio nel “malgrado tutti” stà la grandezza del libro. L’autore “viene trasferito” in Iraq dove assiste impotente al tentativo di sbloccare la situazione tramite il dirottamento (in “coproduzione” con i palestinesi) di un aereo tedesco prima nello Yemen, poi a Mogadiscio (che finirà con la morte dei dirottatori), all’uccisione di “Spindy” (quando ormai i sequestratori avevano rinunciato a “processarlo” e ne riconoscevano una sorta di influenza morale sul gruppo), all’inesplicabile (suicidio o omicidio?) morte dei compagni in carcere che volevano liberare (che sembra “presa di peso” da qualche scena di Eschilo o di Sofocle), fino alla dispersione dei superstiti…Senza nominare i classici greci, Peter-Jürgen Boock, ne testimonia la perenne attualità.


“Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza”

mandracchia

(inedito, scritto durante il lockdown del Marzo-Aprile 2020. In seguito pubblicato altrove)

Durante questi giorni “di arresti domiciliari” per la maggior parte della popolazione, tutt* noi riflettiamo sulla morte, (dato che l’attenzione dei più, se non di tutt*, è su tematiche lugubri), e proviamo – in misura diversa – solitudine e/o alienazione. Può quindi essere interessante, o quantomeno è coerente con questa situazione, parlare di un romanzo che tratta questi temi, indubbiamente “da sinistra”. Il protagonista di questo romanzo, a un certo punto fa una sorta di dichiarazione di intenti programmatica, che riflette il pensiero del suo autore. “Decisi di scrivere un libro, tenendo bene in mente che un bildungsroman autentico non può che concludersi con una presa nel culo” (1) afferma il protagonista di “Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza”(2). Al contrario del suo personaggio, che viene dissuaso dal compiere la sua opera letteraria dall’apparizione nientemeno che di Pirandello che lo invita a smettere, e quindi c’è la rinuncia a scrivere, come nel corso del romanzo altre forme d’arte verranno tentate dal protagonista che ne viene dissuaso da “qualche autorità nel campo”, il Roberto Mandracchia fattualmente ….scrive un romanzo, che è quello di cui parliamo. Come dunque evitare “la presa nel culo” ? Non solo svincolandosi “dai canoni” di quello che è il “bildungsroman autentico”, ma soprattutto concludendo la vicenda non con la maturazione dell’adolescente protagonista, né tantomeno con un finale in qualche modo “aperto”, ma concludendolo con una morte annunciata. La morte, la solitudine, l’estraneamento da una realtà in cui non c’è nulla di positivo, sono, come ho già scritto, tra i temi di questo romanzo. Anche l’amore è tutto, tranne “l’incontro tra due anime” , ed è simbolico che, in questo romanzo, fin dalla sua prima apparizione il colore associato alla ragazza amata dal protagonista è il bianco (3)….ricordate cosa scrive ad es. Melville del colore bianco ? Nei loro incontri “intimi” non c’è mai “congiunzione”, solo “danni fisici” fatti o subiti (che non sono neppure fonte di piacere, ma solo il segno dell’incapacità reciproca a relazionarsi in altro modo) il dialogo è ….Molto poco, certo non uno scambio tra punti di vista diversi, la massima espressione d’amore diviene rendere l’altro una sorta di oggetto, trasformandolo in una specie di messaggio in bottiglia per il mondo esterno “Mi piace pensarti come quei manufatti terrestri che vengono infilati dentro delle capsule lanciate poi nello spazio -un po’ come hanno fatto con i dischi dei Beatles e le variazioni Goldberg [….] Nell’eventuale caso che le forme di vita aliene, venendone a contatto, si rendano conto dei livelli che hanno raggiunto i terrestri” (4). Quindi non c’è il riconoscimento dell’altro (in questo caso altra) come persona, ma una mera proiezione del sé, che a un certo punto viene “ritirata” , infatti la donna amata – Marta – a un certo punto scompare, per ritornare solo come allucinazione (della cui illusorietà il protagonista è totalmente consapevole) al momento della morte dello stesso. Il sesso c’è, ma ha valenze unicamente negative, dalle molestie subite dal sacrestano, fino all’erotomania che porterà alla morte il padre del protagonista…La famiglia del protagonista è formata da persone concentrate su sé stesse, che vengono “portate via” dai loro stessi limiti (il padre, come ho già ricordato muore a causa della sua infedeltà, la madre impazzisce per il senso di colpa e finisce in una casa di cura); un nonno pur disponibile è comunque “perso nei suoi pensieri e nei suoi ricordi”. L’unico grande amico Gero, ha valenze ambigue, un po’ cerca di salvare il protagonista – in primis dalla sua relazione con Marta, cosa questa che non depone gran che a suo favore – un po’ è sostanzialmente indifferente alla sua sorte, e finisce per “diventare qualcuno” nel mondo dei soldi e della finanza. Dell’istituzione scolastica emerge solo la ripetitività (se non la reazionarietà) dell’insegnamento. Il contesto storico – Agrigento contemporanea – è molto delineato, ma presenta solo aspetti negativi. “Garogenti [ Agrigento N.d.R.] non era una città, ma la parodia grottesca di una città. Garogenti era un’accozzaglia di logore quinte teatrali. I suoi abitanti non avevano nulla dei cittadini, ma degli attori, dei saltimbanchi, degli istrioni” (5). Nel corso dell’opera si ritornerà con varie metafore sulla “pochezza morale” della vita nella cittadina.Si parla nonostante tutto, anche di problemi storico-sociali. Per esempio la mafia c’è, (e influisce nelle vicende del romanzo) ma è quasi un’elemento del paesaggio, perde i connotati di fenomeno da combattere, per parere quasi una fatalità della natura anche quando uccide, ma di cui si mostrano anche gli aspetti banali e le piccole miserie …Il protagonista non conosce l’impegno politico se non come fantasia-sogno-reminescenza; ritroviamo in questi termini la lotta armata (6), il Maggio francese (7), ma anche – con una sorta di rovesciamento – il Cile di Pinochet (8). Date queste premesse, non sorprende che i termini di “spazio-tempo” vengano messi in dubbio dal protagonista: “Forse non mi trovo a Garogenti e non mi trovo persino sulla terra. Forse sono su un altro pianeta o su un astronave che è una costruzione composta da due cubi uno più piccolo, l’altro più grande” (9). Quali vie di fuga restano? I tentativi artistici vengono frustrati -lo ripeto- dall’intervento di varie figure (ho già ricordato ad es. l’apparizione di Pirandello). Le droghe accentuano solo il senso di estraneità e lo spaesamento, l’eroina poi, con le sue crisi d’astinenza, “peggiora la situazione”. Rimane solo la morte. A noi, “in contesto diverso” spetta il difficile compito di trovare altre soluzioni. Il merito del romanzo è però quello di porre il problema; se ci suggerisse anche le soluzioni cadrebbe nel didattico, cosa che è raramente un pregio per un’opera d’arte, a meno che non si parli di Brecht. I problemi che esso affronta vanno al di là dell’adolescenziale; pongono interrogativi e dubbi a tutti noi. E, il Mandracchia, con una prosa che io paragonerei a quella per esempio della Isabella Santacroce nelle sue opere migliori, indubbiamente riesce “a farci riflettere”.

(1) Mandracchia Roberto, Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, Agenzia X ed. Milano 2010, pag.79

(2) op.cit.

(3) ibid. pag. 17

(4) ibid. pag. 122

(5) ibid. pag.20 . Comunque in più punti del romanzo si descrive la città siciliana con metafore poco lusinghiere.

(6) ibid. pag 53 -55

(7) ibid. pag. 74 -75

(8) ibid. pag. 112 -113

(9) ibid. pag. 56


La filosofia di P.K.Dick

(altra ri-pubblicazione, con minime modifiche)

L’influenza (ma anche il fraintendimento e/o la banalizzazione) dell’opera di Philip K. Dick nell’immaginario contemporaneo è enorme. Si pensi ad es. ai film ispirati alle sue opere da “Blade Runner”, a “Minority Report”, passando per “Atto di forza”. E’ quindi interessante da più punti di vista esaminare la sua ideologia.

Un’esposizione abbastanza dettagliata e coerente di questa è presente in “Se vi pare che questo mondo sia brutto” (1). Naturalmente, come per ogni autore bisognerebbe parlare di varie “fasi”, nessuno scrittore è mai stato perfettamente coerente e lineare nel corso di tutta la sua carriera, tuttavia i tre saggi che compongono il volume danno una buona approssimazione dello sviluppo del suo pensiero. Vi anticipo subito che il seguito della frase del titolo è “dovreste vederne qualche altro”, se pensate che questo mondo sia brutto dovreste vedere gli altri. L’autore parte dalla considerazione che siamo sempre più circondati da quelli che oggi si chiamano “aggeggi smart”, apparentemente dotati di vita propria, e, in un certo senso di anima. Chiaramente una macchina, o è prevedibile o non è una macchina, ma la crescente complessità degli algoritmi che stanno alla base del funzionamento dei nostri lavastoviglie, lavatrice etc. potrà, in un prossimo futuro, dar luogo a comportamenti da parte di essi, inaspettati, anche se certo non imprevedibili. Qui apro una parentesi c’è una grossa differenza tra un comportamento inaspettato e un comportamento imprevedibile. Se una persona che non ha mai visto un automobile, che non conosce il codice della strada, incontra improvvisamente un’auto a guida autonoma (2); quella che si guida da sola beh, la crederà capace di autodeterminazione, almeno al livelli di un animale, comunque di un essere “animato”, mentre sappiamo che non è così, sappiamo che essa segue le regole del codice della strada, e che fa quello e basta. Allora cos’è che distingue l’uomo dalla macchina? Questa è una domanda cruciale per il nostro futuro e nel primo dei saggi che compongono il volume Philip K. Dick articola una risposta a mio parere molto interessante. L’uomo può fare una scelta morale, anche una scelta irresponsabile – la macchina no- l’uomo può essere -di proposito- inaffidabile, la macchina no. La macchina agisce in base ai suoi algoritmi etc. L’uomo, si comporta, o quantomeno dovrebbe comportarsi non in base a meccanismi. E così facendo, l’uomo crea la (sua) realtà; sceglie anche cosa considerare reale e cosa no (per esempio può scegliere di considerare come “non reali” le esperienze oniriche notturne). Un’automa invece non crea la sua realtà. Ora, a questo potremmo fare tutta una serie di obbiezioni, sia sul lato “Anche noi abbiamo i nostri meccanismi interni” sia dal lato “una macchina è reputata tanto più intelligente quanto le sue tra virgolette risposte sono indistinguibili da quelle umane”. Queste obbiezioni, anche se indirettamente vengono affrontate nel secondo dei saggi che compongono il volume: “Uomo, androide e macchina”.

Una macchina che interrompesse il suo programma per tornare a svolgerlo solo dopo una decisione consapevole agirebbe “umanamente”. Parlando della differenza tra uomini, androidi e macchine, viene fuori il tema dell’inganno, delle maschere perché qualcuno o qualcosa sembri ciò che non è (di nuovo una macchina è considerata tanto più intelligente quanto le sue risposte sono indistinguibili da quelle umane). E lì, bisogna dire, l’autore comincia ad andare sul mistico, perché secondo lui tutto quello che esiste “serve” a fin “di bene”, quindi visto che non è tutto rose e fiori quello che esiste bisogna che lo giustifichi in qualche modo, (in ultima analisi, la giustificazione di Dick è che non è “reale”). Anche il tempo è un inganno -sua concezione, peraltro molto ben articolata- ma comunque esso evolve verso il “disvelamento” finale. Anche noi abbiamo i nostri meccanismi interni -ma -e questa è la sua risposta all’obbiezione forse più frequente che si può muovere alla sua definizione della differenza tra uomo e macchina, anche questi fanno parte dell’inganno “a fin di bene”. Quindi arriva, a parlare dei rapporti tra conscio e inconscio, e su questa strada si arriva quindi alla sua concezione della divinità unica -si, perché secondo me uno dei più grossi limiti di Dick, che comunque è apprezzabile da una prospettiva materialista è quello di essere un monoteista d’acciaio, divinità che sarebbe immanente, in modo simile alle idee di Spinoza. Vi lascio senza “spoiler” il resto del saggio dicendovi solo che comunque è anche apprezzabilie -chiaramente fino a un certo punto- anche da una prospettiva materialista. La domanda “avrebbe la storia potuto andare anche in un altro modo? E cosa sarebbe successo allora?” è presente anche in autori ultra-materialisti, più o meno contemporanei del P.K.Dick -citerò per es. nel campo libertario il Murray Bookchin- e quella “cos’è davvero reale?” è presente per così dire in filigrana anche ad es. in molta letteratura marxista, per restare nel campo del materialismo. Più che per le risposte che P.K.Dick dà, secondo me è interessante leggerlo per le domande che lui si pone (e ci pone). Domande che hanno senso anche restando nel materialismo, e non necessariamente solo nel cosiddetto “materialismo dialettico”. Anche Il presunto fine della storia, o lo scopo di essa è comunque una domanda che viene fuori anche se non si legge P.K.Dick.

E queste domande sono alla base del terzo saggio del volume: “Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro”. Qui l’autore espone le sue idee sul divenire storico e sulla struttura del reale. E di nuovo vi lascio senza “spoiler” pur avvertendovi che “và sul mistico”. Ma, ancora: quelle che sono interessanti sono le domande che l’autore si pone, domande che il tra virgolette “militante di sinistra” necessariamente affronta, anche se credo che pochi tra noi diano le stesse risposte del P.K.Dick, soprattutto nella sua fase più tarda e mistica.

(1)Philip K. Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto, Feltrinelli ed. Milano 1999
(2)https://it.wikipedia.org/wiki/Autovettura_autonoma


Caos & Cybercultura

041L-1

Confesso che con il passare degli anni sono sempre più scettico sulle supposte capacità di internet di giocare un ruolo positivo nell’evoluzione umana. Tuttavia rifiuto la volontà assolutamente politica di trattare il Timothy Leary come “un cane morto”, benchè il personaggio abbia comunque avuto i suoi demeriti (sarò esplicito su quali siano a mio avviso: Leary viene citato in positivo nell’opera famigerata del Thomas A. Harris “Io sono ok, tu sei ok”, libro che, bisogna ricordarlo, giustifica parte del peggio della psichiatria contemporanea (farmaci e persino elettroshock); dato questo, è evidente che anche il Leary i suoi sbagli li ha fatti). Vorrei che se ne tornasse a parlare “in modo pacato”. Ripubblico qui (con minime correzioni) perciò un mio vecchio articolo su “Caos & Cybercultura”.

Uno dei libri, a mio avviso, “indispensabili” per capire il mondo e ciò che stiamo vivendo è “Caos e Cibercultura” del Timothy Leary” (1).

Dirò subito che su un paio di specifici argomenti – la giustificazione da parte dell’autore dell’esistenza dei cosiddetti “Young Urban Profesionals”, meglio noti con l’acronimo di YUPPIE; e l’analisi fatta del fenomeno della morte- non mi sento in accordo, con le tesi esposte. Peraltro l’ottimismo di Leary giustifica – a volte- la critica che rivolge al suo autore, la Joanne Kyger: “Pagine insaporite di parole come: un tipo dolcissimo, una nuova terapia che è una delizia, un pomeriggio che è un amore. [….]”(2).

Tutto ciò, però non sminuisce l’importanza dell’opera, una delle poche che indaghi con intelligenza e completezza sull’avvento della moderna civiltà informatica.(3)

L’autore, seppure da una prospettiva radicalmente diversa da quella dei classici apologeti dell’esistente (ricordate, ad es. le illusioni di “fine della storia” pre 11 Settembre 2001?) descrive – in fondo profeticamente, visto che il libro è del 1994 – l’avvento della moderna civiltà informatica nei termini di un salto evolutivo, analogo a quello – citato espressamente – che portò i nostri progenitori fuori dall’acqua e alla conquista della terraferma.
Gli orrori della civiltà industriale (alcuni dei quali descritti e analizzati esplicitamente, come il militarismo americano, altri impliciti, come lo sfruttamento capitalista delle masse) non vengano negati nè giustificati, ma finiscono per apparire come una fase transitoria, ancorchè necessaria, dell’evoluzione.
La civiltà informatica, finirà, a suo avviso, per superare molte delle atrocità della modernità capitalista.

Lo sguardo di Leary indaga lucidamente sullo sviluppo della coscienza umana partendo, se così possiamo dire, dai fondamenti. La sua esperienza di psicologo giunge, non solo a descrivere il funzionamento del cervello umano con analogie prese dal mondo dei computer, ma anche ad indagare le modificazioni profonde che l’interazione con questo mondo comporta.

L’essere umano però non risultà nè disumanizzato nè “disincarnato” anzi, al contrario solo con l’avvento dell’informatica possono emergere, da un lato le sue vere peculiarità ( “I computer non sostituiranno la gente vera, ma solo i burocrati a livello medio e basso. Sostituiranno voi soltanto nella misura in cui usate l’intelligenza artificiale ( e non quella naturale) nel vostro lavoro e nella vostra vita. Se pensate come un burocrate, come un funzionario, come manager, come membro di una grande organizzazione nella quale non si fanno domande, o come giocatore di scacchi, allora state attenti….” (pag. 33 ), dall’altro solo il computer può rendere al corpo la sua importanza: “Il primo fatto da tenere presente è: noi tricelebrali non dovremmo usare il nostro prezioso corpoware per lavorare. Non è un sacrilegio sprecare i nostri preziosi sistemi sensoriali nello sgobbare, faticare, travagliare? Non siamo animali da soma, o servi della gleba, o robot esecutivi in divisa che debbano trascinare in ufficio il ventiquattrore. Perchè mai dovremmo usare i nostri corpi preziosi e insostituibili per fare lavori più indicati per le macchine della catena di montaggio?” (pag.5 ).

L’indagine procede anche conversando con protagonisti della cultura di quegli anni, come W. Gibson, W.S.Burroughs, Winona Ryder e altri. La vastità e la natura degli esempi e dei campi d’indagine esposti non mi permettano una sintesi esauriente, nella scarsità di tempo che la pazienza del lettore/lettrice può concedere a me; basti dire che l’indagine del Leary esplora a 360 gradi, non solo, come ho già ricordato, l’intera coscienza dell’uomo, ma altresì l’intero corso evolutivo dell’umanità, nel momento appunto di questa svolta cruciale, il passaggio a una società basata sull’informazione.

Uno dei “leit-motiv” è comunque il rapporto autorità- individuo che il Leary (a mio parere, giustamente) risolve a favore di quest’ultimo, dopo averlo esaminato nella sua evoluzione storica. Il Leary è inoltre convinto che le moderne tecnologie faranno “pendere la bilancia” sempre più a favore di quest’ultimo, e ne espone esaurienti ragioni.

Coerentemente con questo, posso ricordare – e condividere – lo slogan dell’opera, sintetizzato con l’acronomo TFYQA ossia Think for yourself; question authority, grosso modo traducibile come: “Pensa per te stesso, metti in discussione le autorità”.

Per concludere lascio la parola all’autore medesimo:

I proprietari di Personal Computer stanno scoprendo che il cervello è:

  • l’organo definitivo del piacere e della consapevolezza;
  • una matrice di cento miliardi di microcomputer che attendono il boot, l’attivazione, la stimolazione, la programmazione;
  • in impaziente attesa di software, testaware, pensieroware, che ne riconosca l’impressionante potenziale e che renda possibile il collegamento elettronico in inter-rete con altri cervelli.”(4)

 

Il vostro affezionatissimo

 

(1)Timothy Leary, Caos e Cibercultura, Milano, Ed. Urra-Apogeo, 1996. Il titolo originale è “Chaos & Cyber Culture” ma evidentemente l’editore, (o, meno probabilmente: il traduttore) riteneva “troppo anglofono” per quegli anni, scrivere “cybercultura” con la y, dimostrando così poca preveggenza…. Comunque rimane una pregevole edizione, splendidamente illustrata, il cui principale difetto è l’assenza di un indice analitico….

(2) dal diario indiano della Kyger, presente nell’antologia “The Beat Book: poesie e prose della Beat Generation” a cura di Anne Waldman, Milano,il Saggiatore, 1996, pag. 227

(3) Purtroppo è piuttosto sconfortante notare come qualsiasi discorso, e la maggioranza dei testi sul tema “informatica, società e individuo” non esca dai due consueti binari, ossia la falsa alternativa del pessimista “Come internet sostituisce i rapporti umani” e dell’idiota apologia “Come internet ingrassi i profitti delle aziende, ossia dei soliti pescecani”.

(4) Op. Cit. Pag 50.


Apologia del boudoir (parte 2)

(prosegue da https://corsivimistiallabrace.wordpress.com/2014/03/26/apologia-del-boudoir-parte-1/)

….in realtà non solo non è affatto logico che voi non mi prendiate sul serio il De Sade, ma questa è appunto una delle cause del fatto che nonostante le sue opere si trovino anche al supermarket, l’umanità non ne trae il benchè minimo giovamento…

Riflettete…. “la ripetizione è la madre dello studio”, ripeterò dunque quanto già affermato…Voi fate di peggio di qualsiasi eroe del Marchese….Come è che ne sono tanto sicuro? Ma è semplice: qualsiasi persona di mia conoscenza …E’ artefice di atti ben peggiori, quindi posso ragionevolmente supporre, pur non conoscendovi che anche voi…

Ora: se dunque voi fate cose ben peggiori, (e per motivi ancora meno giustificabili), si potrebbe supporre che, qualsiasi presa di coscienza, come quella che potrebbe portarvi la lettura del De Sade, sia un lodevole passo nella famosa direzione di “estendere l’area della consapevolezza”. Non è così; perchè?

Sgombriamo subito il campo da conclusioni affrettate: io non vi stò suggerendo di imitare i protagonisti delle opere del Marchese: sarebbe troppo innaturale per voi, e come tutte le cose troppo artificiali “non riuscirebbe bene”.

C’è in effetti un’altra ragione per cui, come ho scritto prima, nonostante le sue opere si trovino anche al supermarket, l’umanità non ne trae il benchè minimo giovamento. E’ quella di considerare le sue opere come “volgarmente” pornografiche, senza esaminarne le idee.

Con qualche ironia (neppure troppa, benchè non condivida la spiritualità dell’autore) citerò come “teste della difesa” lo Stephen E. Flowers, che nella sua opera “Lords of the Left-hand path” osserva come le opere del Marchese siano difficilmente da classificare come “pornografiche” come ritengono coloro che non le hanno mai lette (o come ritengano coloro che le hanno lette solo superficialmente, aggiungo io). Potrei del resto, chiamare “al banco” anche testimoni più autorevoli.

Analogamente a quanto accade ad es nelle opere di Voltaire, in quelle del Marchese, gli avvenimenti dei protagonisti si amalgamano alle dichiarazioni filosofiche. Ora, adesso io potrei iniziare una disamina delle idee del Marchese, ma purtroppo le leggi che anche qui in Italia regolano la cosiddetta “libertà di espressione”, e che sono molto più restrittive di quanto il pubblico crede, mi impongano la scelta tra l’ipocrisia e il carcere. Scelgo una terza via, e ….eviterò la prevista disamina….

Accennerò solo brevemente al fatto che -a mio avviso- anche le apparenti aporie dei vari ragionamenti dei protagonisti delle sue opere, si inscrivono, a mio parere, in una coerente esposizione, nella quale è centrale la difesa della centralità dell’individuo.

Adesso devo resistere alla tentazione di scadere nell’aneddoto e di raccontarvi qualche caso (della vita …che passiamo vestiti, sia chiaro) in cui l’applicazione di idee, di concetti, nonché di nozioni del De Sade ha “fatto la differenza”. Anzi no, sia pure limitatamente cederò alla tentazione (essendo del resto tentato di raccontarvi fatti molto più stringenti) e mi concedo di accennare a come il sottoscritto, abbia a volte stupito il suo uditorio dimostrando che i meccanismi del giornalismo sono esattamente descrivibili (arriverei quasi a dire: matematicamente prevedibili -almeno nei momenti migliori intendo, non nelle quotidiane bassezze- ) nei termini delle 120 Giornate di Sodoma; anche senza la riprova della famosa tirata che H.S.Thompson pone in “Paura e disgusto a Las Vegas”, quella famosa che comincia con “Il giornalismo non è né una professione né un mestiere etc.” e che guarda caso continua con l’accenno all’autoerotismo….

Ma tutto questo per voi è certo fuorviante; mi limito ad invitarvi ad una sorta di “esperimento teorico”: come cambierebbe il vostro modo di vedere le cose, se accettaste e prendeste sul serio il Marchese? (ancora: non imitando i protagonisti delle sue opere, ma…)

Se non fosse per altro, tendo a farvi notare l’intento didattico di opere come “La filosofia nel boudoir”; vi è stato fatto il favore di tentare di istruirvi, ne volete trarre qualche vantaggio? Se perseverate nel vostro atteggiamento (ossia nel non tenere conto dei suoi insegnamenti), non ne ricaverete nessun beneficio…

Arriviamo a qualche conclusione: a) il vedere le opere del Marchese come letteratura d’evasione; c) l’attribuirgli un intento puramente pornografico; nonché c) la “spocchia” del lettore medio, che si sente a torto moralmente superiore -quando la sua vita quotidiana dimostra proprio il contrario- portano al fatto che l’umanità non ne trae alcun giovamento.

Osservate la Juliette: non perviene forse ad una vita intensa e felice proprio quando le premesse iniziali ne erano contrarie? Osservate molti dei libertini: non sono tali malgrado….quelle limitazioni della natura che teoricamente dovrebbero appunto impedirgli di….? Quindi quantomeno vedetelo -come hanno fatto in molti- ad un inno alle sempre aperte possibilità della vita umana.

La grandezza del De Sade (oltre ad avere compreso che eccitazione e orgasmo sono i soli, se non i migliori, moventi di ogni nostra azione) consiste nell’avere mostrato (e dimostrato, con la sua vita) la vittoria della ragione ( e magari anche di una volontà davvero consapevole e libera, perchè non può esistere libertà senza consapevolezza) sulle limitazioni della carne, della società, dell’ignoranza.


Apologia del boudoir (parte 1)

Il tema non è dei più originali, né lo sarà la sua trattazione, ma…dato che questo è il luogo per i materiali che non posso mettere da altre parti…

Generalmente parlando, sono sempre molto curioso di leggere i commenti di perfetti sconosciuti, che trovo scritti a margine nei libri usati….Devo dire però che lo sconosciuto (o meno probabilmente, la sconosciuta) che ha commentato la mia copia di “Storia di O.” ….come si dice? “Non ci ha dato”…. Infatti commenta sul frontespizio: “Opera noiosa e non più eccitante di un campo di nudisti”.

Esaminiamo “i due corni del problema”; ossia a) se si tratti di un opera noiosa e b) se si tratti di una lettura “eccitante”, e, se in caso contrario, ciò costituisca “una pecca” dell’opera in esame.

Cominciamo dal punto b).

Non che ci sia qualcosa di (a mio avviso) eccitante nel suddetto libro. Certo, la risposta alla domanda: “che cos’è eccitante”, è quanto di più soggettivo ci possa essere a questo mondo. Conosco personalmente qualcuno che trova “sessualmente eccitanti” una delle cose che elencherò…..ossia: la matematica, la ruggine del ferro, le ferrovie, i vecchi faldoni di fatture, etc. etc. E, naturalmente, se esaminiamo il successo editoriale dell’opera in questione….In migliaia lo hanno comprato, e per giunta per quello…

Ma….. “Sarò io”, però … trovo difficile immaginare un lettore (o una lettrice) che conoscendo per sommi capi la trama del libro in questione… lo legge per eccitarsi. A meno che il lettore o la lettrice in questione non abbia provato le sue più forti emozioni alla lettura della “Metafisica” di Aristotele…Cosa, questa, che, nell’ infinito della casistica del reale sarà sicuramente accaduta, prima o poi… Inoltre, vi anticipo subito che, come vedranno i lettori che avranno la pazienza di seguire il mio ragionamento fino in fondo, (e, premetto….dovrete arrivare in fondo alla “parte 2”) personalmente non credo che fosse quello “lo scopo principale” dello scrivere libri di quel genere.

Dunque, se l’eccitamento è per forza di cose soggettivo, e quindi se deve rimanere indeterminato se ciò costituisca o meno un difetto del libro in esame, resta da smontare la tesi secondo cui si tratta di un libro “noioso”. Benchè a tratti interessante, e prescindendo dalla mia opinione contraria a molte delle tesi lì esposte, la “Metafisica” di Aristotele è certamente un libro noioso, non tanto per l’argomento, quanto per l’esposizione pedante e per il “pesante” stile dell’autore. Quanto è più “godibile” lo stile, sia pure “freddo” della Pauline Réage! In quanto ai contenuti, (e questo è il punto dove volevo condurvi), in entrambe le opere, il tema si colloca al di là dell’esperienza vissuta; e la mia opinione su “Storia di O.” potrebbe iniziare con qualcosa del genere: “Si tratta in realtà, di una specie di Queste, ossia un’inchiesta o ricerca, metafisica, che, sebbene assimilabile, per certi aspetti, alle ordalie, ben note alla spiritualità nordica, pur tuttavia se ne distacca, innanzitutto per il suo carattere laico e per altri aspetti, come ad es. ..etc. etc.”. Ora, una disamina della “Storia di O.” non è tra gli scopi di questo articolo, quindi abbandoneremo qui il discorso….Ma comunque…è tutt’altro che un libro noioso…

Dopo avere frettolosamente notato che mi ripropongo di ripetere (anche) tesi “già viste e già sentite”, continueremo ad esaminare i campi del noioso e quelli del metafisico. Sul secondo ritornerò tra un attimo, parlerò innanzitutto del primo. Nove lettori su dieci delle opere del De Sade, le collocano (o quantomeno, collocano molte di esse), nella categoria. Perchè? In parte, con qualche affinità con il mio collocare nella categoria suddetta, la “Metafisica” di Aristotele. E, parzialmente, si deve riconoscere una qualche similarità nell’esposizione, ad es. de’ “Le 120 giornate di Sodoma” con le opere più pedanti dello stagirita.

La colpa però è di Aristotele, non del De Sade. Se il primo non avesse impostato il discorso sulla metafisica in quella maniera, il secondo -a mio avviso- non si sarebbe “regolato di conseguenza”. Il confronto – ancora tra la “Metafisica” di Aristotele, da un lato, e le opere del De Sade, nel loro insieme, ma particolarmente quella, a mio avviso più compiuta, ossia la “Juliette”, dall’altro – io, lo risolvo tutto a favore del francese.
Tra un momento parlerò di metafisica, ma continuiamo il discorso sul perchè molti lettori trovano noioso il De Sade. In realtà sono più quelli che si annoiano che quelli che lo detestano. Così è anche per la “Metafisica” di Aristotele. E tra i primi, (quelli che si annoiano) si annoverano anche persone che io stimo molto…Ma una certa percentuale “si annoia” (intendo : con il Sade) per motivi che non sono affetto “nobili”. Ossia perchè il marchese ha la sgradevole abitudine di porre, involontariamente certo, e in maniera assolutamente innnocente e “naivè”, uno specchio di fronte al lettore, il quale, nei casi che stiamo esaminando, a) trova uno spettacolo assolutamento consueto (non ci guardiamo forse allo specchio tutte le mattine?); b) e per giunta non è affatto disposto a riconoscere quanto sia consueto, vedere nel proprio intimo proprio quello che Sade descrive. Di qui la reazione di fastidio e noia. Non una forte opposizione: non si è così ipocriti. Solo fastidio.

(Poi certo, esistono anche gli ipocriti; quelli che vorrebbero che le opere del Marchese continuassero ad essere bandite. Ma sono ormai in minoranza, perciò li ignorerò.)

Per quanto riguarda l’attinenza con la realtà “esterna” debbo disilludere quanti vorrebbero il Sade descrittore, profeta o quant’altro di qualcosa che è nella “realtà dei fatti” passati, presenti o futuri come ad es. chi vorrebbe un Sade anticipatore o in qualche misura sostenitore del fascismo, del nazismo, di questa o quell’altra oppressione. Come, d’altra parte chi vorrebbe un Sade anticipatore di Freud o di altri. Non solo per le (apparenti o reali che siano) aporie del discorso del marchese, ma per altre questioni che esporrò in estrema sintesi.

Cominciamo con la tesi secondo cui il Marchese, in qualche modo anticiperebbe i regimi totalitari del ‘900 come il nazismo, oppure secondo cui il De Sade espone principi della tirannia sotto questo o quel regime esistente o esistito “nella realtà dei fatti”.

La confutazione principale di questa tesi potrebbe suonare come quella difesa dei sofisti fatta da qualcuno ossia che “Gli autori del massacro dei Melii, non avevano nulla da imparare dai sofisti in fatto di crudeltà”. Un signor Brambilla qualsiasi, l’essere umano medio di qualunque epoca storica (lascio solo il dubbio sul lontanissimo passato e sull’altrettanto lontanissimo futuro), nella sua vita quotidiana commette quantomeno crimini e atrocità ben peggiori di quelle di cui è protagonista qualsiasi personaggio del De Sade…..Anche se, il signor Brambilla, non le compie, è vero, per passione, ma per “piccineria”, paura o per qualche piccola convenienza….fatto questo che non depone certo a suo favore.

Il De Sade, uomo di fantasia fervida, ma isolato (particolarmente nell’ultimo periodo della sua vita)…non riuscì ad immaginare di cosa fosse (e di cosa sarebbe stato) capace “l’essere umano medio”…Di qui l’impressione “naivè”….o se preferite, l’impressione “ricreativa” che tutta la sua opera, dà al lettore o alla lettrice smaliziato/a…..Opera, la sua, che è enormemente lontana dalla profonda, anche se banale, atrocità del vissuto quotidiano della sua epoca, della nostra o di qualsiasi altra….se, abbandoniamo per un momento le ipotesi su quanto avveniva nella preistoria, o di quanto potrebbe avvenire in un lontano futuro.

(continua)